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Diario

Storie d’amore svizzere
Il diario delle foto

9 gennaio 2018

Mattina, fine vacanza, treno.

E’ appena la metà di agosto e noi ci muoviamo verso Sciaffusa , R. rientra al lavoro e mi porta con sé. Dobbiamo finire di scattare le foto per il sito e abbiamo pensato di farlo con i suoi studenti, lui pensa che sia un esercizio utile a loro e a me.

Prima abbiamo tentato di lavorare nello studio di suo padre a Bellinzona ma il caldo e le emozioni ci hanno quasi uccisi. R. monta su e giù per una scala a pioli con i pantaloni corti a torso nudo. E’ bello. Rivoli di sudore corrono giù per la schiena, occhiali appannati, è concentrato e liquefatto. Mezza giornata, pausa pranzo, ricominciamo. Mi racconta di quando appena quattordicenne ha iniziato l’apprendistato da fotografo con suo padre, della bellezza e la fatica che ogni oggetto dello studio fa riaffiorare. Ha lo sguardo arrotondato dall’emozione, fatica a lavorare perché tutto ora gli pare fermo, a fine vita. E poi si affaccia l’idea che insieme al luogo si spenga piano anche il padre, come è naturale che sia. Però non sente ancora pronto il pensiero e la malinconia lo incolla alla sedia.

Lo guardo e gli dico, amore sospendiamo. Ci facciamo un bagno al fiume, guardiamo un film a Locarno e poi decideremo cosa fare.

Così sia.

 

Le foto hanno una storia di migrazione, è un parto difficile questa Matria.

Abbiamo incominciato a scattare a Como nello studio di un amico, poi in giro per il Sud Italia e quindi Bellinzona per finire a Sciaffusa.

 

L’Atelier A è una scuola per ragazzi che non hanno avuto un percorso scolastico lineare, giovani adulti con problemi perlopiù sociali o psichici. Imparano a fare i fotografi, i cuochi, i calzolai e i tuttofare o custodi come diremmo noi in Italia. Io sono emozionata all’idea di andare a scuola con lui, mi ha presentata come la “cliente” ma anche come la sua freundin e mi sento responsabile di entrambe le cose.

Vorrei che lui sapesse quanto sono felice di essere qui, quanto lo stimo e mi piace che mi abbia proposto di condividere il suo mondo. Glielo ripeto come un disco incantato, mi sa che ha capito. Per me è una scoperta e tutto mi pare esotico, mi piace tutto finanche la targhetta del bagno delle femmine.

Arriviamo e ci riuniamo intorno a un grande tavolo dove tutti parlano quello strano idioma che è lo svizzero tedesco, io sorrido muta e inebetita dai suoni rochi e sibilati di questa lingua. Ci sono solo tre dei quattro apprendisti. Lui spiega, io anche, lui traduce e poi si va di là in studio.

R. mi racconta degli inizi a scuola, quando non c’era niente, solo un grande spazio industriale. “Cos’era prima?” “G+F/Georg Fisher, famosa per i tombini di ghisa ma anche per i carrarmati. Armi, mon amour”. A un certo punto sul pavimento dell’area che poi hanno trasformato in studio, hanno versato una colata di resina blu e uscendo dal montacarichi era “magnifico!”, lo dice facendo un gran gesto con le braccia, un abbraccio entusiasta. Lo studio l’ha inventato lui, pezzo a pezzo.

Una giornata ad alto tasso emotivo, questa. Mi prende un nodino alla gola. Guardo R. e i suoi studenti che silenziosi e calmi preparano le luci dello studio per fotografare gli oggetti delle artigiane del Bangladesh. Sono silhouette, ombre che si muovono in armonia, sanno cosa fare. Penso che li ha istruiti bene, alle fatiche che mi racconta, il lavoro per motivarli, per farli appassionare.

Lo studio è grande e bello. Lui è il capo branco ma i suoi sono orsacchiotti più che lupi. E’ bello che le foto le facciano i ragazzi, è la Matria sociale che vorrebbe farsi madre di tutti i figli storti.

Fuori c’è Sciaffusa, la vedo dal finestrino di un furgone, piccola e aggraziata, tutta nuova per me. Molto Nord, quasi Germania, un confine per l’anima. Le cascate viste dal finestrino del treno da Zurigo, non maestose ma potenti, mi danno una sferzata. Sono un quadro romantico in movimento, le ritrovo nel mio panorama interiore.

Prima di rientrare a Zurigo andiamo alla Berner Stuebli e ci fumiamo una sigaretta seduti davanti a una birra in compagnia degli habitué

E poi camminando verso la stazione passiamo davanti alla vetrina di Thomas Müller chocolatier. E’ un piccolo laboratorio artigianale di cioccolato. Qualche tempo fa R. mi ha regalato le Vieilles Prunes e da allora ne abbiamo fatto oggetto di proselitismo, iniziazione, strumento di conoscenza.
Le Vieilles Prunes: una religione dai seguaci in costante aumento.

Sono truffes di prugne secche impregnate con un sospetto di rum ricoperte di cioccolato fondente e cacao amaro. Una delizia che lascia estasiati, sexy, toglie le forze. Consigliate a chi è incline ad abbandonarsi ai sensi.
Si possono acquistare qui https://www.thomasmuller.ch/e-shop/boxen-1/

R. a sorpresa mi regala una visita alle cascate. C’è acqua ovunque, un fragore clamoroso ma attutito che lascia più spazio ai pensieri che alle parole. Come faccio a spiegare? Lui vede con i miei occhi. Mi pare che tutto funzioni come un antico ingranaggio ben oliato in questa storia d’amore svizzera.

 

E domani sarà il nostro anniversario. Per celebrarlo pagheremo una multa che ho preso quando sono venuta a incontrarlo per la prima volta, un anno fa, in fuga con l’auto del mio moroso – ora ex. Una bugia semi innocente che ha atteso un anno esatto per svelarsi, ops!
Partiremo alla volta di Croveggia, andremo a fare la polenta sul fuoco in una piccola baita, incontreremo i caprioli e gli scoiattoli , leggeremo un racconto di Max Frisch dal nostro libro, poi gorgonzola, rigatoni, vino e birra. Lui mi toglie una spina dal dito. Il fuoco acceso tutta la notte. L’acqua l’abbiamo salutata. C’è un bel vento, la terra è fertile. Il bosco è costellato di cacche di animali felici.

C’è il momento in cui si torna a casa domandandosi qual’è la casa.
Il mio negozietto preferito è di strada, a Spluegen.

Mi consolo beata con un picnic di mele e formaggio di capretta, lo sguardo perso nel verde speranza.

 

E mi parte in testa questa musica qui.

 

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