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Diario

Memorie dal Pond
Bangladesh

16 gennaio 2018

Me ne stavo lì comoda nella mia ovattata disoccupazione quando un bel giorno Ro mi chiede se voglio andare con lei in Bangladesh in giro per villaggi a far cestini. A farli fare, per variare la collezione di BaSE che è un po’ datata.

Dalla Bottega della Solidarietà di Sondrio (http://www.commercioequosondrio.it/ ) ci chiedono di dare una rinfrescata ai modelli dei gruppi di artigiane che stanno esportando meno. Ro ha una lunga esperienza di Bangladesh: ha lavorato con i tessuti e ricami tradizionali per anni, ha fondato un’associazione per la valorizzazione del ricamo nakshi kantha con un gruppo di studentesse della Naba di Milano, è appassionata e mi contagia. (http://www.priceisrice.org/#home)

E poi a me non c’è come sventolarmi davanti una valigia per farmi felice: quindi è un sì daje partiamo.

La valigia appunto: il primo passo verso il Bangladesh.
Io sono abituata a viaggiare in India e credo di aver affinato quanto basta l’arte del bagaglio: leggero, comodo e di recente, no agli zaini da giovane, sì alle buone rotelle da zia. E’ con questo spirito che affronto la lista della spesa di Ro, con diffidenza venata da sarcasmo mi adatto pensando però che qui si esagera, non stiamo mica andando in una spedizione sulla luna. E lì mi sbaglio, ma lo capirò solo dopo. Intanto si compera: parmigiano, marmellata, maionese, salsa tonnata, olive, patè di carciofi, tapenade, grissini, cracker, pocket coffee, mon cheri che almeno è alcool, ma sì del tonno, perché non un po’ di miele, gallette, pane carasau, olio d’oliva, ma soprattutto vino. Tante piccole bottigliette da mezzo litro, almeno venticinque. E’ un bel peso ma poi, al ritorno, saremo leggere. Ed è lì che mi sbaglio di nuovo.

Ma torniamo alla valigia e forse anche al visto, perché al Consolato di Milano quando ritiro i passaporti, un giorno prima della partenza con sgomento scopro di essere un maschio di Lodi molto scuro con una folta barba. Mi hanno dato quello sbagliato, il consolato è chiuso, mi piglia un colpo! Ma riesco, con un migliaio di telefonate, a farmi restituire il mio appena in tempo.

Decido di partire per Calcutta qualche giorno prima di Ro perché c’è Durga Puja, lei mi raggiungerà.

Durga Puja è una festa celebrata negli stati indiani di West Bengal, Assam, Jharkhand, Orissa e Tripura dove si svolgono cinque giorni annui di festa. Nel West Bengal e nel Tripura, che hanno la maggioranza della loro popolazione hindu, è la più importante festa dell’anno. Non solo è la più grande festa hindu di tutto lo Stato, ma è anche il maggiore evento socio-culturale della società bengalese.

La Durga Puja comprende anche il culto di Shiva, che è il marito di Durga, oltre che quello di Lakshmi, Saraswati, Ganesha e Kartikeya, considerati figli di Durga.

C’è un uragano che mi sfonda le Birkenstock , ma ne valeva la pena.

Da Calcutta prenderemo un’auto verso il confine di Petrapole/ Benapole attraverso il Bengala. Sono circa 4 ore di auto durante le quali ad un certo punto veniamo bloccate da alcuni sedicenti maoisti che chiedono soldi. Ci spaventiamo, l’autista fa l’inerme ma poi io mi metto in modalità bionda occidentale isterica vi scaccia come piccioni e riusciamo a liberarcene in qualche modo.

I paesaggi sono stupendi nella loro monotonia, gli alberi secolari di palissandro, mogano e albizia si susseguono creando un corridoio ombroso e una barriera dalla quale si scorgono i verdi, dolci campi cantati da Tagore. La stessa strada la percorse Allen Ginsberg nel novembre del 1971, in piena guerra di liberazione, per raggiungere quello che era l’allora l’East Pakistan e che a breve sarebbe diventato il Bangladesh. Ginsberg compose la sua “September on Jessore Road”( http://www.nytimes.com/books/01/04/08/specials/ginsberg-jessore.html ) raccontando la fame, il dolore e quegli stessi alberi che sto guardando io.

Poi mi pentirò di aver usato la parola monotonia per il Bengala, ma ancora non conoscevo il paesaggio ipnotico del Bangladesh. Laggiù vai in trance, lo sguardo ha pochi appigli, chilometri di campi piatti, risaie, acquitrini e sparute coltivazioni di juta e papaya. Se non fosse per le buche e il rischio continuo di incidenti sarebbe un gran bel dormire in macchina. Da svegli.

Nel percorso a piedi tra la dogana indiana e quella del Bangladesh ci trasciniamo le vettovaglie. Una delle valigie ha le rotelle rotte, minchia. Io ho il passaporto vergine dal quale non si evince che sono già stata in India parecchie volte, perciò il poliziotto al confine indiano non si dà pace. Vede il timbro di ingresso a Calcutta datato tre giorni prima e pensa che me ne voglia andare a far turismo in Bangladesh. Cerca di dissuadermi costernato, dice che l’India è bella, grande, ci sono tante cose da visitare ‘mam perché vai in Bangladesh?’ Ha quasi il magone, tocca rassicurarlo e così gli dico che vado per “social work” ma tornerò presto!
Il Bangladesh mi ha insegnato tante cose, per esempio ad apprezzare la birra, a essere più paziente, a dire sempre ok e poi fare come mi pare.

L’ingresso è questo, a me piace molto, ma io piacerò a lui?

Il legame con il Bangladesh nasce in Valtellina con Padre Giovanni, il missionario Saveriano che ha fondato BaSE, la ONG che coordina le donne artigiane dei villaggi del West Bangladesh ( http://www.basebangladesh.org)

QUI una bella testimonianza di R su Padre Giovanni

Alla dogana ci vengono a prendere Eila e Mamudbhai. Lei è la coordinatrice dei gruppi, lui il nostro autista, bodyguard, angioletto. Saliamo su un gippone e molleggiamo fino a Banchte Shekha a Jessore.(http://banchteshekha.com)

Siamo stanche e fa freddino, c’è un’atmosfera palustre, abbiamo fame. Ma da lì in poi avremo sempre fame, saremo ossessionate dal cibo. C’è la nostra italianità in questa ossessione ma qui credo che anche un danese starebbe a disagio.
La cucina di Banchte Shekha è quello che ci si immagina se si pensa a una certa ruralità del nostro medioevo. Grandi fuochi a legna ardono sotto pentoloni giganti, poca luce, topini e scarafaggi. E dentro ai pentoloni sobbolle la Cosa.
La Cosa è un dhal di lenticchie. Pensa al dhal e poi dimenticalo, aggiungi litroni di acqua senza sale, venti lenticchie ogni litro d’acqua e avrai il tuo brodo, da degustare semifreddo accompagnato da un blocco di riso scotto, freddino, sciapo. Per fortuna abbiamo anche della papaya lessa: voilà la base della nostra alimentazione. Le pietanze vengono servite in uno stanzone al neon che sarebbe bello con altre luci, insieme a noi lo staff che si fa su un pappone misto di tutto, lo gira e lo rigira con le mani come noi faremmo con la malta, trangugia veloce a testa bassa e via.

Vabbè facciamoci una birretta. NO! Il Bangladesh è dry: una parola che qui si asciuga ancora più crudelmente lasciandoci con una scimmia che nemmeno i nostri goccetti di vino centellinati la sera in camera riusciranno mai a estinguere. A me dell’alcool non è che freghi poi molto, di solito, ma qui il mio desiderio assume dimensioni bukowskiane.

Almeno abbiamo Angela che ci intrattiene con graziose canzoni (in un mese due, sempre quelle), i gesti delle sue mani accompagnano il canto, tutti la ascoltiamo anche perché non abbiamo alternativa. Ha fatto cose molto importanti per le donne del Bangladesh, provo una sincera stima per lei e perciò mi sento in colpa quando, scorgendola nel patio a passeggiare, mi nascondo. Una vita dedicata alle donne del Bangladesh con passione e grande energia, ma non dev’essere facile stare sempre lì nello stesso posto giorno dopo giorno. Capisco il suo bisogno di stare a contatto con gli ospiti. (http://rmaward.asia/awardees/gomes-angela/)

La colazione è il momento migliore della giornata, perché the e omelette al peperoncino piccante mi piacciono. Oggi andiamo al mercato a comperare materiale per il workshop (e banane che son buone).

E poi il primo incontro con le donne, almeno per me. Ro viene accolta con grida di entusiasmo.
link video pir presentazione donne
La struttura in cui ci troviamo per il workshop è bella, costruita in mezzo al verde, fuori qualche capretta bruca beata sulle rive di un bel pond. Qui Ro esprimerà prima discretamente ma poi con sempre maggiore veemenza il suo amore per i pond. Progetta di trasferirsi con V in riva al pond, nutrendosi di quei graziosi cefali di venti chili scrivendo un’autobiografia mentre le donne ricamano e V compone e/o declama poesie ovviamente ispirate dal pond. Alla ricerca del pond perduto, forse, una decina di volumi, almeno.

Mentre siamo lì a lavorare con le donne Mamudbhai ci porta una specie di piccolo samosa buonissimo che d’ora in poi diventerà indispensabile. Ne mangerei dieci perché sono piccoli, ma in Bangla è tutto piccolo: cipolline, galline nane , bananine, melanzane lillipuziane, omini, donnine.

Il lavoro da fare è tanto e sarà un mese intenso. Incominciamo con un progetto di ricamo e poi ci sposteremo nei villaggi di Borodol, Baniarchor e Bhabarphara per i lavori in juta e foglia di palma. In questo viaggio riusciremo a produrre molti campioni nuovi, sarà una bella soddisfazione.

Nel villaggio di Bhoborpara a Ro viene l’idea di fare un corso di tintura. I colori ce li abbiamo, la juta c’è. Cominciamo nella cucina della missione con un bel pentolone. Ro gira le spume rosa bollenti dentro uno stanzino circondata da donne che la fissano forse sgomente. Va bene tutto sommato, e così decidiamo di esportare la tecnica nel villaggio.

Si parte a piedi poi si attraversa un fiume in barca. All’attracco alcune migliaia di pesciolini stanno essiccando al sole, il tanfo è da svenire.

Arrivate dall’altra parte della sponda io comincio a temere i serpenti, chissà perché. Ro viene invitata dentro una capanna di un metro quadro complessivo e lì quasi uccisa dal morso di un ragno, crediamo, mentre seduta a terra rimesta colore in un pentolino, che poi sarà usato per bollire il riso per cena.

Ci convinciamo che morire per un corso di tintura non è il massimo, pensiamoci su. Strutturiamo meglio – abbiamo poi realizzato una tintoria di tutto rispetto Trovate un approfondimento sul progetto sul sito di Price in Rice (vedi link sopra).

Forse è per questo che appena ci giriamo la più anziana delle streghette del gruppo ci fa il verso simulando una danza mentre finge di fumare una sigaretta? Le altre donne ridono di gusto.

Non ci stanno prendendo sul serio.

La notte i pagliericci della missione sono talmente umidi che sembra di dormire dentro il pond, ma malgrado il suo amore per questi ultimi Ro decide di trasferirsi a dormire in macchina scandalizzando Mamudbhai che cerca in ogni modo di opporsi, quasi piange. Inutilmente. La pipì preferiamo farla nella giungla, chissà perchè.

E’ bello vedere le donne al lavoro con i figli addormentati in grembo o per terra liberi di giocare, ci sembra che non ci siano particolari apprensioni e che le donne si sostengano e aiutino a vicenda. In questo stato di stupore un giorno, guardando un piccolo di un anno e mezzo giocare con una scatola di spilli aperta, io e Ro ci siamo dette “Ma guarda che libertà: qui non si preoccupano per niente…” e lo abbiamo lasciato fare per non manifestare le nostre ansie occidentali. Finchè non si è sentito l’urlo della madre che è intervenuta di corsa e glieli ha levati. Ops…

Al mercato di Jessore comperiamo la racchetta da tennis elettrica per stecchire le zanzare. La contemplazione del tramonto sul pond la esige. Guardiamo sconcertate le mostruose bocche dei cefali giganti che affiorano e si rituffano nelle acque melmose, sembrano i tritoni della fontana di Piazza Navona. Il suono delle vittime della graticola è talmente pirotecnico che toglie un po’ di incanto, ma la magia del pond resta intatta (cit. Ro).

Ormai sono passate due settimane e domani andremo a Khulna. Per descrivere il nostro soggiorno trascriverei una lettera inviata all’amico Alberto:

“Ciao Alb, come stai?
Io mi sono spostata nella periferia di Khulna e dormo in mezzo alla giungla ospite della missione dei Saveriani. Nella piccola libreria che ho in camera ho trovato un’edizione dei manuali Hoepli del Corano ammuffita, tarmata, scagazzata di topo. L’ho incominciato ma mi annoia e così son passata al libro a fianco, un vecchio Oliver Twist Collins tascabile. Qui di orfani ce ne sono molti, certo meno scafati di Oliver . Incontro con altro prete (cominciano a diventare troppini per i miei gusti) simpatico di cui però non mi sono innamorata. Questo è messicano, si chiama Carlos e canta tutto il giorno un vasto repertorio di canzoni (alcune italiane), si conversa amabilmente tramite brani di canzoni alla maniera del film di Resnais On connait la chanson. Saputo che sono una costumista mi ha promesso che celebrerà nel villaggio una messa cantata vestito da mariachi, costume che pare possieda sebbene mi sia difficile capirne l’uso possibile in Bangladesh. Per il resto sempre bene, non sopporto più di mangiare riso e lenticchie ma stasera siamo invitati a cena all’ospedale dove sono arrivati i doctors italiani da Parma. Per sei mesi si danno il turno equipes di medici e infermieri volontari che vengono da svariate parti d’Italia e si fermano a operare per alcune settimane secondo necessità. Questa sera ci sono i maxillofacciali, la prossima settimana arrivano gli ortopedici. Stasera risotto alla zucca, pasteggiando a gin tonic. Il cibo diventa un’ossessione quando la dieta è così, diciamo, sobria. Non si parla d’altro. A parte i missionari non abbiamo mai incontrato occidentali nei nostri spostamenti, qui sono davvero rari e io bionda e chiara creo ancora qualche reazione, tipo: donne che mi seguono al mercato e proprio mi accompagnano a fare la spesa di negozio in negozio fissandomi in silenzio, bambini che fuggono piangendo, animali che scappano. Ma forse è normale che le manguste non siano tanto friendly, salvo poi farmi la cacca in camera, un gesto che ancora non so interpretare. Tirando le somme mi piace abbastanza stare qui, anche perché ho la certezza che presto tornerò. Spero.
Baci
B”

Lì incontreremo per la seconda volta Don Renato, padre di origini piemontesi con il cuore zingaro. Prete “fidei donum” dal 1992 vive sulle barche con le tribù nomadi del Bangladesh. Sono tutti musulmani o hindu. E lui, unico cristiano, non desidera convertire nessuno. Perché anche quelle dette da Ganesh sono «povere parole di Dio».
Un vero sagittario. Ci porta a visitare la palafitta dimensione bara nella quale ogni tanto sosta, all’interno di una sparuta comunità musulmana nella periferia di Khulna sulle rive di…no questa volta non è un pond ma proprio una roggia. E’ un prete picaresco, non sta mai fermo, trotta su e giù per il Bangladesh e difende la libertà di professare la propria fede quale che sia auspicando che tutte possano convivere civilmente. Uno zainetto, i sandali sfondati e un cappello di lana. Si è dedicato alla pastorale dei nomadi in Brasile,India, Bangladesh. Ha affrontato malattie anche gravi, ma non si ferma. Non può.

E’ il giorno dei morti, prima di partire Andiamo a rendere omaggio alla tomba di Giovanni nella missione centrale dei Saveriani di Khulna, lì dove aveva scelto di vivere e dove forse sapeva che sarebbe morto. Una piccola tomba con i fiori freschi, è commovente.
Rientrando in auto verso Jessore Ro inserisce nel mangiacassette un nastro che chissà da dove è uscito e mentre fuori sfila il panorama polveroso della periferia di Khulna al crepuscolo, dentro parte l’Avvelenata di Guccini. Lo considero forse il momento più straniante di tutto il nostro viaggio. A “godo molto di più nell’ubriacarmi” parte il coro nostalgico.

Ma ecco che il nostro viaggio volge al termine, salutiamo il pond e torniamo a Calcutta.

Sbarchiamo in hotel stanche, puzzolenti e impolverate. Il tempo di far cadere le valigie nella hall e ci fiondiamo al Fairlawn Hotel in Sudder Street dove in meno di dieci minuti trangugiamo due litri di birra e patatine fritte con ketchup piccante. E’ pura estasi, la Kingfisher è la birra più buona del mondo?

Poi un’ora al beauty parlor di Ho Chi Min road. 15 metri quadrati con una dozzina di donne cinesi che ti lavorano a gruppi di tre: manicure, pedicure, capelli in contemporanea. La mano d’opera non scarseggia.

Subito dopo, nel nostro ritrovato splendore, andiamo a mangiare una pizza. No la pizza in India mai, mi son sentita dire solo un mese prima. Ed eccoci qui da Fire and Ice a ordinare insalata fresca, pizza che ci sembra eccellente, Mozzarella e pomodori. Ho le lacrime agli occhi. Quasi casa.

La mattina dopo arriviamo all’aereoporto in hangover. Ho tentato di dissuadere Ro dal portare a mano un bancale di merce e parzialmente ci sono riuscita, ma il nostro bagaglio ha comunque un peso in eccesso di circa 30 chili. Mentre facciamo esplodere le valigie davanti al check-in per tentare un patetico inganno sentiamo dire la parola business. Ci viene il dubbio e infatti quei gentleman dell’Emirates non solo non ci fanno pagare l’extra ma ci piazzano in business. Lo scopriremo solo una volta salite in aereo e reagiremo con un entusiasmo che neanche Alberto Sordi potrebbe eguagliare. Peccato non riuscire a godermela fino in fondo, un attacco di gastrointerite fulminante quasi mi uccide ma poi passerà.

Il Bangladesh è cognitivo comportamentale, ti aiuta ad apprezzare cose che davi per scontate e ti costringe a esercitare virtù che non sapevi di avere. E adesso lo posso dire, in fondo mi manca.

Con la promessa di un nuovo capitolo, un saluto affettuoso.

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